Chi ha ucciso Marco Pantani?
Di ‘sti tempi va così: ho appena finito di leggere “Pantani è tornato” di Davide De Zan e appena cominciato a divorare “Seven Deadly Sins” di David Walsh, che – naturalmente – in Italia è diventato “The Program” in ossequio al (bellissimo, secondo me) film di Stephen Frears uscito al cinema a inizio autunno, e li ho trovati, loro e le loro storie, complementari.
Si: complementari, perché dove comincia la caduta di uno, Marco Pantani, inizia anche l’ascesa di Lance Armstrong, anche se i due si sono incontrati poco, sfidati ancora meno e amati pressoché niente: il “cowboy” chiamava il nostro “Elefantino” per le sue orecchie a sventola, e dichiarò (quasi ce ne fosse stato il bisogno) di averlo lasciato vincere il 13 luglio 2000 sul Mont Ventoux, dove i due arrivarono insieme.

Pantani non digerì mai quelle parole, e forse – e dico forse perché la mente di un uomo è un mistero inesplorabile – quella vicenda aggravò ulteriormente lo stato depressivo in cui il Pirata era precipitato dopo quella maledetta mattina a Madonna di Campiglio, quando fu escluso dal Giro d’Italia 1999 che fino a quel momento aveva dominato.
Fatte queste premesse, il legame dove potrebbe essere? In una sigla, UCI, Unione Ciclistica Internazionale.
Il ciclismo di fine anni ’90 si stava trasformando per assumere la forma che conosciamo oggi: al netto del doping, che è sempre esistito sin dai tempi della “Bomba” di Fausto Coppi a oggi e ancora prima, passando per la doppia positività del “Cannibale” Eddy Merckx (e una lunga serie di altri episodi), stava scoprendo l’importanza delle TV e degli sponsor, che non erano più magnati “illuminati” (o invasati, ché il livello è sempre opinabile) bensì grandi multinazionali, banche, aziende del settore…
Interessi economici sempre maggiori che cozzavano con l’immagine emersa nel 1998, quando l’affaire Festina ha iniziato a scalfire (notate: scalfire, non scardinare come invece vorrebbero farci credere) un sistema fatto di silenzi e connivenze.
L’immagine di quel 1998 a pedali fu Marco Pantani, in giallo a Parigi dopo aver sfilato in (maglia) rosa a Milano, ultimo di una ristrettissima cerchia di campioni a riuscire a centrare la doppietta Giro/Tour nello stesso anno.

Prima di arrivare sugli Champs-Élysées, Pantani aveva messo se stesso e la sua maglia gialla alla testa di una rivolta del gruppo contro i controlli antidoping indiscriminati, un’immagine dalla potenza simbolica deflagrante che evidentemente aveva tolto il sonno a più di qualcuno in ASO (la società che organizza il Tour de France) e non solo lì.
Punire Pantani voleva dire punire il rappresentante più alto e più amato, il simbolo di quella rivolta al potere; un potere che invece cercava connivenza, come sempre, offrendo in cambio un piatto di minestra a tutti quelli che ci stavano. E’ bastato un controllo del sangue eseguito “alla carlona” per farlo fuori, dare un segnale a tutti gli altri e girare pagina. Già, ma come?

Anzitutto, abbandonando l’uomo: Marco Pantani è stato offeso, aggredito sin da subito da quelli che fino al giorno prima ne avevano cantato le gesta (avevo 15 anni, ma ricordo ancora l’editoriale di Candido Cannavò su La Gazzetta dello Sport il giorno successivo: praticamente un pestaggio). è stato lasciato solo, dopo la caduta più rovinosa della sua carriera, e gli unici a offrirgli un rifugio sono stati il signor Cenni, patron storico di Mercatone Uno, e la cocaina, che poi l’ha ucciso per mano delle cattive compagnie che si porta appresso: l’unica cosa che, pur bianca, riesce a essere sporca.
Distrutto il simbolo del passato, UCI si è affrettata a costruire una nuova icona più a sua immagine: Lance Armstrong.

L’uomo sopravvissuto a un tumore e tornato più forte di prima, e già qui c’è di che scriverne un’epopea; l’uomo che prima di correre un Tour de France lo perlustrava 3 o 4 volte, per prepararsi alle insidie che avrebbe incontrato; l’uomo che ha introdotto un nuovo modo di pedalare, passando dai “rapportoni” a frequenze indiavolate sopra le 100 pedalate al minuto: Ivan Basso è quello che più di altri è riuscito a imitarlo, salvo per il dettaglio di essere stato coinvolto in un’inchiesta sul doping mentre Lance continuava a uscirne immacolato, e vincere.
Sette volte in fila, record assoluto di tutti i tempi: un risultatone, per chi aveva sconfitto il cancro, e già il solo fatto che questo esempio abbia dato una speranza a tante persone ammalate a qualcuno fa sentire Armstrong meno stronzo rispetto ad altri.

Marco Pantani no: è morto il 14 febbraio 2004 in un anonimo residence di Rimini, con i suoi fantasmi e quella solitudine che non lo ha messo al riparo dalle brutte compagnie che aveva cominciato a frequentare.
Ucciso da quelle mani che lo avevano abbandonato e ostacolato quando si era rifiutato di stringerle.
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