Recensione libro “Cuore di cobra – Confessioni di un ciclista pericoloso” di Riccardo Riccò, Dario Ricci
Da poche ore ho finito di leggere “Cuore di cobra – Confessioni di un ciclista pericoloso“.
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Il ciclista in questione è Riccardo Riccò da Formigine, Modena, scalatore classe 1983 che nel 2008, a soli 24 anni, vincendo 2 tappe al Giro d’Italia (e classificandosi secondo nella generale) e centrando altrettanti successi al Tour de France, era dato in predicato di diventare il nuovo fenomeno del ciclismo mondiale.
Se non fosse che proprio a quel Tour de France 2008 Riccò fu trovato positivo al CERA, l’EPO di terza generazione, un doping dotato (all’insaputa sua e di altri ciclisti) di un marcatore in grado di farlo rintracciare ai controlli.
Da lì carcere, squalifica di due anni, ritorno alle corse da negletto (in una squadra che, a causa della sua presenza, non è stata invitata al Giro d’Italia), una difficile risalita, il ritorno nel World Tour con la Vacansoleil, una sacca di sangue per autoemotrasfusione conservata male, un ricovero d’emergenza e l’inevitabile nuova squalifica per doping, stavolta per 12 anni, a scrivere la parola “fine” su una carriera che avrebbe potuto essere scintillante e invece non è mai decollata: oggi Riccardo Riccò fa il gelataio a Vignola con la sua compagna Melissa e al ciclismo non pensa più.
La storia di Riccò, che qui ho riassunto per sommi capi, la ricordiamo tutti, più o meno: per chi la vuole ripassare, il libro – che materialmente è stato scritto dal giornalista Dario Ricci – è un ricco, buono e gradevole riassunto.

La sensazione generale che ho avuto, però, è che in questo libro manchi qualcosa, ma che ci sia anche qualcosa di troppo.
Mancano alcune spiegazioni.
Se è chiaro che con alcuni colleghi corridori non è mai corso buon sangue, non si arriva mai davvero del tutto a capire perché si sia creato tutto quell’astio che emerge in diversi passaggi del libro.
Davvero ce l’hai con Contador solo perché ha vinto il Giro d’Italia dicendo di non averlo preparato? Porta alle estreme conseguenze le tue insinuazioni e metti su carta la teoria per cui la sentenza (relativa al caso del doping al clenbuterolo che travolse lo spagnolo) fosse stata già scritta e fosse a conoscenza sia del diretto interessato che degli organizzatori del Giro, anziché lasciarla solamente intendere.
E poi, con Bettini, tutta quell’acrimonia (da parte del Grillo) per non aver accettato un accordo in corsa?
(in questo scazzo ci ho visto però lo stesso scazzo che lo stesso Bettini ebbe con un altro dopato eccellente e famoso per le sue prese di posizione non proprio allineate al contesto, come Riccò, e come Riccò seguito dallo stesso medico, il dottor Santuccione: Danilo Di Luca)
Manca, a conti fatti, l’indicazione di un vero mandante dell’omicidio (sportivo) di Riccò, sebbene si intuisca che l’ipotesi è “se fai il ruffiano ti proteggono, se sei troppo esuberante trovano gli strumenti per rimetterti al tuo posto”, quindi la colpa di tutto questo sarebbe da attribuire agli organi politici che governano il ciclismo.
Anche il rapporto con la (ex) compagna Vania Rossi, un po’ entra di prepotenza nella trama, un po’ resta inespresso come nel finale, che ho trovato decisamente frettoloso.
Poi c’è qualcosa di troppo.
C’è troppa attenzione al doping: pare di stare in una farmacia! Lunghi elenchi di sostanze e di effetti dell’uso delle stesse, tanto che alla fine ti scivolano quasi via nella lettura, senza neppure impressionarti.
C’è troppo racconto del Riccò ragazzino e poco, in proporzione, del Riccò ciclista professionista: il passaggio alla Ceramica Flaminia è solo tratteggiato, la trattativa con la Quick-Step salta entro poche righe, la parentesi Vacansoleil meritava di essere più e meglio ricostruita, anche perché è quella che stava portando il ragazzo alla morte per doping, non proprio uno scherzo.
Ci sono troppe insinuazioni, incarnate dai “ciclisti di 80 kg che spianano le montagne” che ricorrono in un paio di passaggi o negli strali lanciati contro Gianetti, che comunque non è stato certo uno stinco di santo quando correva.
Infine c’è troppo, troppissimo riferimento a Marco Pantani e a Riccò come un nuovo Pantani: l’ho trovato quasi fastidioso.
Detto tutto questo, “Cuore di cobra – Confessioni di un ciclista pericoloso” resta comunque un libro che – secondo me – bisogna leggere, fosse anche solo per farsi la propria idea o perché è piuttosto veloce, mai noioso, al massimo piuttosto superficiale.
Piccola nota: l’ho cercato anche in biblioteca senza successo, quindi “mi è toccato” acquistarlo. Ma a conti fatti, è una scelta che non rimpiango.
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